Nel Febbraio 2010, un importante quotidiano nazionale ha evidenziato come un caso di anoressia fosse stato visto e allo stesso tempo letto in modo diverso da 3 specialisti appartenenti a 3 scuole diverse di pensiero. Per lo specialista numero 1, il problema era dovuto ad un insieme di conflitti rimasti irrisolti e sepolti a livello inconscio. Lo specialista numero 2, invece, si era mosso sulla base di un sistema familiare a suo giudizio invischiato e a tratti patologico. Infine, per lo specialista numero 3 il disturbo non poteva prescindere dalle cognizioni e dalle credenze disfunzionali che la paziente aveva sviluppato.
Ogni specialista, ciascuno secondo il proprio credo, e secondo ovviamente temporalità differenti, aveva tentato senza esito di portare la paziente alla guarigione o quantomeno al miglioramento della condizione patogena. Il tutto, ribadisco, senza esito.
E’ curioso che, a questo punto, il giornalista si sia interrogato non tanto sul perché del fallimento terapeutico (che può dipendere da svariati motivi, tra cui, non di rado, dall’assenza di compliance del paziente), ma sul perché di una così differente teoria di riferimento nell’analisi di una stessa situazione. In altre parole: “Perché lo stesso problema è stato analizzato e scomposto secondo 3 teorie diverse?” E soprattutto: “Quale di queste è corretta?”
Il lettore potrà rispondere “nessuna” o “tutte”. La cosa non fa grande differenza. E ciò non perché nessun specialista possa permettersi di valorizzare superbamente la propria teoria a scapito di un altro… La ragione è ben più profonda e ben più importante.
Un mese dopo l’ultimo tentativo terapeutico, la paziente fu presa in carico da un altro specialista, numero 4. Questo non adottò alcuna teoria “assoluta” di riferimento e non cercò minimamente di capire perché la ragazza si rifiutasse di mangiare. Concentrò tutti i suoi sforzi nel capire come il problema funzionava e soprattutto come questo si manteneva. Risultato: la ragazza riprese a mangiare alla 5° seduta e la sua situazione clinica migliorò progressivamente.
In gran parte dei casi, la maggior parte delle teorie considerate possono esser ritenute valide ed è importante che lo specialista non sottovaluti tali aspetti all’interno di un percorso terapeutico. Molto più spesso, però, capita che tali teorie vengano elette come “assolute” e assumano le caratteristiche di gabbie in grado di intrappolare e irrigidire il punto di vista dello specialista.
Focalizzarsi sul perché di un problema non implica saperlo risolvere. Conoscere come fare una cosa non significa saperla fare o essere in grado di farla.
Già in tempi non sospetti, un noto studioso di nome Rosenthal aveva evidenziato come la realtà, anche la più scientifica, sia influenzata da chi la osserva. Non ci deve sorprendere quindi che al mondo esistano tanti specialisti in grado di avere una propria visione della stessa realtà problematica. Ci sorprende, invece, vedere come ancora oggi la rigidità di certe teorie sia tale da ingabbiare la realtà all’interno di un quadro “forzato”, incapace di essere risolutivo. Cosa interessa alla psicologia contemporanea: dimostrare la superiorità di una teoria rispetto ad un’altra o essere quanto più risolutiva possibile?
Paul Watzlawick sosteneva come, molto spesso, guardarsi dentro renda ciechi. In altre parole, come andare frequentemente alla ricerca delle cause di un comportamento dentro di noi ci faccia perdere di vista la realtà circostante, le relazioni con noi stessi, con gli altri e con il mondo esterno. Forse aveva ragione.