“Se non lo faccio con te, con chi lo devo fare…?!?”, “Non ce la faccio a stare zitta, è più forte di me!”, “Ho bisogno di sfogarmi con qualcuno…”
Da quanto tempo queste espressioni fanno parte del nostro linguaggio? E quante volte ci siamo promessi di migliorare, di non far pesare le nostre insofferenze agli altri?
In realtà, la lamentela è da sempre qualcosa di comunemente “umano”. Nel senso comune, la sequenza che ci porta spesso a giustificare la lamentela è: “Ho un problema con te – non riesco a sopportarlo/sopportarti – mi devo lamentare/sfogare“. Vista così, non fa una piega: se ho un problema che non riesco a sopportare, è giusto che mi lamenti. Sono io, quindi, che subisco la tua insopportabilità, per cui è necessario che mi sfoghi con qualcuno…
Proviamo per un attimo a rovesciare la sequenza, provando ad assumere una posizione proattiva: “Mi devo lamentare, perché non riesco a sopportarti, quindi ho un problema con te“. Il problema non è più solamente qualcosa che subisco, ma che addirittura contribuisco ad alimentare.
Quella che può sembrare una banale analisi linguistica, in realtà è proprio ciò che provochiamo e comunichiamo a noi stessi in certe situazioni. Nella maggior parte dei casi, infatti, sono proprio le nostre lamentele ad intossicare ed acutizzare certe situazioni, rendendoci ancor meno capaci di sopportare e andando ad alimentare un caso già di per sé difficile. Proviamo a riflettere: Quante volte ci siamo scaldati al punto che la situazione ci è sfuggita di mano o è comunque peggiorata? Quante volte avremo fatto meglio a tacere, anziché “rovinare tutto” con la nostra impulsività ed il nostro “giustizialismo”? In quali occasioni siamo davvero riusciti ad ottenere ciò che volevamo con il nostro atteggiamento polemico?
A livello prettamente psicologico, la lamentela, se in alcuni casi può risultare inevitabile, in molti altri è proprio ciò che legittima la nostra incapacità a migliorare. È come se ogni volta ci comunicassimo che non siamo in grado, divenendo sempre più vittime di noi stessi, del nostro “urlare-contro”.
Il nostro linguaggio, oltre che parlare agli altri, parla soprattutto a noi stessi, inasprendoci, rendendoci spesso irriconoscibili.
Quando polemizziamo con gli altri, anche se a buona ragione, stiamo contemporaneamente comunicando a noi stessi che anche questa volta non siamo capaci di tollerare quella situazione o quella persona con cui, per motivi lavorativi o familiari, dovremo inevitabilmente avere a che fare.
Quindi, cosa fare?
Certo, non possiamo pretendere di trasformarci con la bacchetta magica… Se abituati allo “sfogo” non ci verrà certamente facile interrompere la nostra lamentela e, in alcuni casi, potrebbe essere addirittura controproducente. In ogni caso, per cominciare, possiamo provare a confinarla in uno spazio o in un momento preciso della giornata, scegliendo i canali che vogliamo. Ad esempio, possiamo dedicare mezzora al giorno, la sera, a sfogare le nostre insofferenze, e possiamo farlo in forma verbale, scritta o artistica… Tutto ciò che può canalizzare e circoscrivere la nostra lamentela, aiuterà a ridurla e a confinarla, lasciando piuttosto libera il resto della giornata… A patto di racchiuderla nella mezzora!
Solo successivamente, potremo provare a piccolissimi passi a boicottare la nostra lamentela. E chissà che, così facendo, ciò che era ritenuto insopportabile, non diventi pian-piano qualcosa di meravigliosamente neutralizzabile. La nostra gola, le nostre corde vocali, nonché la nostra autostima ne saranno sicuramente contente.
“Non mettermi accanto a chi si lamenta senza mai alzare lo sguardo,
a chi non sa dire grazie, a chi non sa più accorgersi di un tramonto.
Chiudo gli occhi, mi scosto di un passo. Sono altro, sono altrove“. Alda Merini